Teatro

Euridice e Orfeo: rielaborazione del lutto di un mito greco

Euridice e Orfeo: rielaborazione del lutto di un mito greco

Euridice e Orfeo, la pièce messa in scena dal testo di Valeria Parrella per la regia di Davide Iodice, giunge alla sua prima nazionale. Un lavoro di indubbio valore artistico sui cui gravitano alcune pesanti criticità.

Euridice e Orfeo, la pièce messa in scena dal testo di Valeria Parrella per la regia di Davide Iodice, giunge alla sua prima nazionale (all’interno del Napoli Teatro Festival Italia 2015) nella torrida sala del Teatro Bellini di Napoli. Un lavoro di indubbio valore artistico sui cui gravitano alcune pesanti criticità.

La drammaturgia della Parrella rielabora il mito di Orfeo ed Euridice proponendone una lettura in chiave contemporanea. Un viaggio, quello intrapreso da Orfeo, non più attraverso un inferno fisico/materiale, per condurne via l’amata defunta, ma psichico/esistenziale, che lo conduca all’elaborazione del lutto subito. L’Ade diviene dunque il luogo dell’animo ferito a morte, dal quale Orfeo ne sarà condotto via dalla stessa Euridice. Un’inversione dei classici ruoli dettati dal mito greco che porta la defunta ninfa a chiedere all’amato di essere guardata in volto affinché questi possa definitivamente essere liberato dal tormento della perdita. Ed attraverso il volto di Euridice, Orfeo rivedrà, infine ritrovando, se stesso. Una prolifica intuizione (quasi più filosofica che letteraria, così come giustamente indica l’autrice nelle note di sala) alla base di un testo che con il dipanarsi del racconto si trasforma in una poco vibrante narrazione. Un flusso di parole che, seppur diversamente formulate, restano costrette a ritrovarsi nell’enunciazione dello stesso soggetto drammatico.

Al contempo, l’opera di Iodice riesce ad enfatizzarne i pregi, stemperandone la vaghezza. Una regia sapiente, capace di segnare, tra gli echi di liuti mediterranei, con grevi ombre ed onirici squarci di luce, la poesia che ancora sopravvive in questo Orfeo, il cui proverbiale canto è ormai ridotto ad un urlo di dolore. Una messa in scena ispirata, organica nei movimenti di scena, capace nel saper reinventare il coro greco (Raffaella Gardon) ed al contempo fondere le sonorità di strumenti a corda (magistralmente suonati dal vivo da Guido Sodo) in un corpo quasi materiale, posto in scena quale ulteriore elemento scenografico.  

Se, come già detto, questa rappresentazione priva il protagonista del suo proverbiale dolce canto, riducendone il fiato ad un incessante urlo di dolore, più che esaustiva si dimostra l’interpretazione offerta da Michele Riondino. Il suo registro è così fedele alla linea che, sin dalla prima battuta, risulta disteso su di un infinito cronico lamento, privo di un qualsivoglia accento interpretativo. Diversamente da quanto prova l’Euridice impersonata da Federica Fracassi. Un’interpretazione priva di imprecisioni, diafana come la pelle di una ninfa.